In questa parte del sito intendo proporre, con la frequenza che mi sarà possibile, qualche lettura che ritengo gradevole, ma che potrebbe non essere solo un breve passatempo, per chi vorrà prestare un minimo di attenzione. Sono note che ho scritto nel corso degli anni della mia professione, qualcuna risale a quasi due decenni fa, ma con qualche ritocco penso sia ancora utile. Anche l'Aspirina, nata nel 1897, continua a fare un buon servizio. Buona lettura.
Renato Ganeo
Renato Ganeo
MANCIA SI, MANCIA NO
Non si pensi, dal titolo, ad un argomento superficiale. Di certo non è strategico per conquistare i mercati, tuttavia la conoscenza di usi e costumi di altri paesi costituisce un aspetto da non trascurare. Nei miei numerosi viaggi nel mondo mi è più volte accaduto che, arrivato all'albergo mi sia sentito dire “la prenotazione non risulta!" e, specie nei paesi medio-orientali, a poco servisse sventolare i fax (una volta) o le email scambiati. Ho così imparato a sventolare un biglietto da 5 o 10 dollari ed ecco apparire la prenotazione. Lo stesso per un posto in un volo "completo" o per il visto di ingresso ottenibile "solo dopo una settimana".
In inglese si dice tip, in tedesco trinkgeld (soldi per bere), in spagnolo propina, in francese pourboire (per bere) ed in italiano mancia. La chiave che apre molte porte, che può rendere possibile l'impossibile, l'apriti sesamo della grotta di Ali Babà. Sorrido di certi opuscoli turistici, dove è scritto che nel tal paese non vige l'uso della mancia. Vige eccome, a tutte le latitudini, anche se con modalità e soprattutto "quantità" diverse. La differenza è, forse, tra paesi “ricchi” e poveri, in questi ultimi un dollaro va benissimo, mentre il portiere di un albergo di Londra probabilmente rifiuterebbe sdegnato, il dollaro, non la mancia come istituzione.
In alcuni paesi la mancia è obbligatoria, una componente del prezzo complessivo. In Francia il 15% di service nel conto del ristorante è la regola; negli Stati Uniti se non si lascia al tassista, almeno il 10% ci pensa lui a ricordarcelo. In Italia invece abbiamo quasi l'esclusiva mondiale del coperto (oppure pane e coperto), che i ristoranti un pò più di tono stanno gradualmente eliminando, presumo girandolo sul prezzo delle pietanze e in fondo al menù troviamo "servizio compreso". Ovviamente dove si paga la voce servizio, poi di mancia non se ne parla proprio, fatti salvi la guardarobiera o l'uomo del parcheggio.
La mancia è comunque un costo aziendale, che andrebbe giustificato, sia a fini amministrativi, che fiscali. Se tale voce è riportata nel conto, o risulta nella ricevuta della carta di credito è tutto chiaro, diversamente valgono le regole che ogni azienda ha stabilito. Un amico, avvocato fiscalista, mi ha detto che gli uffici tributari raccomandano che l'importo della mancia sia "coerente con la spesa" ed intuisco che cosa significa. Comunque sia, ogni viaggiatore navigato sa bene se, quando e quanto dare di mancia. Personalmente sono incline a darla, anche con una certa generosità, "prima", se davvero mi serve qualcosa; "dopo" è solo un bel modo di dire grazie! .
Non si pensi, dal titolo, ad un argomento superficiale. Di certo non è strategico per conquistare i mercati, tuttavia la conoscenza di usi e costumi di altri paesi costituisce un aspetto da non trascurare. Nei miei numerosi viaggi nel mondo mi è più volte accaduto che, arrivato all'albergo mi sia sentito dire “la prenotazione non risulta!" e, specie nei paesi medio-orientali, a poco servisse sventolare i fax (una volta) o le email scambiati. Ho così imparato a sventolare un biglietto da 5 o 10 dollari ed ecco apparire la prenotazione. Lo stesso per un posto in un volo "completo" o per il visto di ingresso ottenibile "solo dopo una settimana".
In inglese si dice tip, in tedesco trinkgeld (soldi per bere), in spagnolo propina, in francese pourboire (per bere) ed in italiano mancia. La chiave che apre molte porte, che può rendere possibile l'impossibile, l'apriti sesamo della grotta di Ali Babà. Sorrido di certi opuscoli turistici, dove è scritto che nel tal paese non vige l'uso della mancia. Vige eccome, a tutte le latitudini, anche se con modalità e soprattutto "quantità" diverse. La differenza è, forse, tra paesi “ricchi” e poveri, in questi ultimi un dollaro va benissimo, mentre il portiere di un albergo di Londra probabilmente rifiuterebbe sdegnato, il dollaro, non la mancia come istituzione.
In alcuni paesi la mancia è obbligatoria, una componente del prezzo complessivo. In Francia il 15% di service nel conto del ristorante è la regola; negli Stati Uniti se non si lascia al tassista, almeno il 10% ci pensa lui a ricordarcelo. In Italia invece abbiamo quasi l'esclusiva mondiale del coperto (oppure pane e coperto), che i ristoranti un pò più di tono stanno gradualmente eliminando, presumo girandolo sul prezzo delle pietanze e in fondo al menù troviamo "servizio compreso". Ovviamente dove si paga la voce servizio, poi di mancia non se ne parla proprio, fatti salvi la guardarobiera o l'uomo del parcheggio.
La mancia è comunque un costo aziendale, che andrebbe giustificato, sia a fini amministrativi, che fiscali. Se tale voce è riportata nel conto, o risulta nella ricevuta della carta di credito è tutto chiaro, diversamente valgono le regole che ogni azienda ha stabilito. Un amico, avvocato fiscalista, mi ha detto che gli uffici tributari raccomandano che l'importo della mancia sia "coerente con la spesa" ed intuisco che cosa significa. Comunque sia, ogni viaggiatore navigato sa bene se, quando e quanto dare di mancia. Personalmente sono incline a darla, anche con una certa generosità, "prima", se davvero mi serve qualcosa; "dopo" è solo un bel modo di dire grazie! .
STRATEGIA, PIANIFICAZIONE, DECISIONE
Nei miei incontri con giovani aspiranti manager (ma anche con chi lo è già) continuo ad usare, dopo decenni, una frase che vale più di quello che sembra: Cos'è un arciere senza un bersaglio? Nulla. Per un uomo d'azienda (cioè l'arciere) il collegamento immediato con "bersaglio" è "obiettivo" che, per le imprese, è ciò a cui tendere. Non sono forse "obiettivi" quelli che perseguiamo in termini di fatturato, utile, numero di clienti, quota export e, più in generale di crescita dell'azienda?
Il mio dubbio però è proprio questo: ce li poniamo davvero sempre questi obiettivi? Non è che qualche volta li confondiamo con le aspettative o, peggio, con i desideri? Se una strategia è una rotta tracciata o una strada da percorrere, gli obiettivi sono i diversi punti da raggiungere a mano a mano che si avanza, per cui dobbiamo sapere perfettamente quali sono, dove sono, quanto tempo occorre per raggiungerli e quali risorse dobbiamo avere a disposizione. E' una fase delicata nella gestione dell'impresa quella del transito da strategia a pianificazione; è un momento di concretezza, di verifica seria su che cosa si può veramente fare, entro quando, con quali costi e quali risultati. Significa davvero misurare le proprie forze, valutare mezzi e potenzialità e, soprattutto, decidere.
Per un capo d'azienda, un imprenditore questo dovrebbe essere un percorso logico, naturale, una modalità normale di approccio a tutti gli aspetti della vita dell'impresa. Ciò dovrebbe valere per l'assunzione di nuovo personale, per l'installazione di un nuovo impianto, per l'entrata in un nuovo mercato, ma anche per la scelta di una nuova banca con cui lavorare, o un consulente al quale affidare un incarico. Occorre dare, o cercare di dare, risposte chiare a domande altrettanto chiare.
Strategia e pianificazione sembrano parole grosse, ma hanno lo stesso significato, contenuti e importanza, sia nelle grandi che nelle piccole imprese. Vogliono semplicemente dire che, dopo averci pensato bene ed essere convinti, bisogna decidere, avendo individuato e potere disporre dei mezzi, umani e materiali, per poterlo fare.
Il segreto sta nel pensarci prima, per non rischiare di doversi pentire dopo.
Nei miei incontri con giovani aspiranti manager (ma anche con chi lo è già) continuo ad usare, dopo decenni, una frase che vale più di quello che sembra: Cos'è un arciere senza un bersaglio? Nulla. Per un uomo d'azienda (cioè l'arciere) il collegamento immediato con "bersaglio" è "obiettivo" che, per le imprese, è ciò a cui tendere. Non sono forse "obiettivi" quelli che perseguiamo in termini di fatturato, utile, numero di clienti, quota export e, più in generale di crescita dell'azienda?
Il mio dubbio però è proprio questo: ce li poniamo davvero sempre questi obiettivi? Non è che qualche volta li confondiamo con le aspettative o, peggio, con i desideri? Se una strategia è una rotta tracciata o una strada da percorrere, gli obiettivi sono i diversi punti da raggiungere a mano a mano che si avanza, per cui dobbiamo sapere perfettamente quali sono, dove sono, quanto tempo occorre per raggiungerli e quali risorse dobbiamo avere a disposizione. E' una fase delicata nella gestione dell'impresa quella del transito da strategia a pianificazione; è un momento di concretezza, di verifica seria su che cosa si può veramente fare, entro quando, con quali costi e quali risultati. Significa davvero misurare le proprie forze, valutare mezzi e potenzialità e, soprattutto, decidere.
Per un capo d'azienda, un imprenditore questo dovrebbe essere un percorso logico, naturale, una modalità normale di approccio a tutti gli aspetti della vita dell'impresa. Ciò dovrebbe valere per l'assunzione di nuovo personale, per l'installazione di un nuovo impianto, per l'entrata in un nuovo mercato, ma anche per la scelta di una nuova banca con cui lavorare, o un consulente al quale affidare un incarico. Occorre dare, o cercare di dare, risposte chiare a domande altrettanto chiare.
Strategia e pianificazione sembrano parole grosse, ma hanno lo stesso significato, contenuti e importanza, sia nelle grandi che nelle piccole imprese. Vogliono semplicemente dire che, dopo averci pensato bene ed essere convinti, bisogna decidere, avendo individuato e potere disporre dei mezzi, umani e materiali, per poterlo fare.
Il segreto sta nel pensarci prima, per non rischiare di doversi pentire dopo.
CHI FA MARKETING IN AZIENDA ?
Mi sorprende e al tempo stesso mi compiaccio notare come più il marketing diventa moderno, sofisticato, telematico, social e più tornano buoni i "pilastri" che ho studiato quasi 50 anni fa. Il marketing prima che funzione aziendale e competenze tecniche, è una mentalità, una cultura, un modo di pensare, una filosofia. E' come un fluido che attraversa l'intera impresa e coinvolge tutte le funzioni indistintamente.
Immaginiamo una politica aziendale centrata sul "servizio" che viene sabotata da una centralinista che risponde tardi o male al telefono, o agli obiettivi di “qualità" diffusi alla clientela, ma non condivisi dal responsabile della produzione. Ogni funzione all'interno dell'azienda ha la possibilità, anzi deve, "fare marketing" cioè svolgere i propri compiti nell'ottica della soddisfazione del cliente, unico e vero risultato al quale tendere.
Forse che l'autista che fa le consegne non migliora l'immagine aziendale se ha il camion pulito, la tuta da lavoro in ordine, arriva puntuale, ha il sorriso sulle labbra e scarica la merce con gentilezza? E la signorina della contabilità che sollecita un pagamento in modo cortese, scusandosi se nel frattempo è stato provveduto? Siamo tutti d'accordo che sono comportamenti coerenti con le logiche del marketing, non c'è dubbio, eppure nè l'autista nè la signorina della contabilità lavorano nell'ufficio marketing, ma entrambi possono dare un enorme contributo in termini di immagine, comunicazione, servizio.
La funzione marketing potrebbe quindi essere collocata non in una casella di un ideale organigramma, bensì costituire una specie di anello, di cerchio che circonda l'intera azienda, un "filtro" gigantesco attraverso il quale transitano e si purificano tutti i fatti dell'impresa, in entrata ed in uscita. Se vale, come dovrebbe, l'equazione qualità totale = soddisfazione del cliente la questione riguarda tutti all'interno dell'azienda.
Forse aveva ragione David Packard, co-fondatore della Hewlett-Packard, che con un pizzico di ironia diceva "il marketing è troppo importante per lasciarlo in mano solo ai direttori marketing!"
Mi sorprende e al tempo stesso mi compiaccio notare come più il marketing diventa moderno, sofisticato, telematico, social e più tornano buoni i "pilastri" che ho studiato quasi 50 anni fa. Il marketing prima che funzione aziendale e competenze tecniche, è una mentalità, una cultura, un modo di pensare, una filosofia. E' come un fluido che attraversa l'intera impresa e coinvolge tutte le funzioni indistintamente.
Immaginiamo una politica aziendale centrata sul "servizio" che viene sabotata da una centralinista che risponde tardi o male al telefono, o agli obiettivi di “qualità" diffusi alla clientela, ma non condivisi dal responsabile della produzione. Ogni funzione all'interno dell'azienda ha la possibilità, anzi deve, "fare marketing" cioè svolgere i propri compiti nell'ottica della soddisfazione del cliente, unico e vero risultato al quale tendere.
Forse che l'autista che fa le consegne non migliora l'immagine aziendale se ha il camion pulito, la tuta da lavoro in ordine, arriva puntuale, ha il sorriso sulle labbra e scarica la merce con gentilezza? E la signorina della contabilità che sollecita un pagamento in modo cortese, scusandosi se nel frattempo è stato provveduto? Siamo tutti d'accordo che sono comportamenti coerenti con le logiche del marketing, non c'è dubbio, eppure nè l'autista nè la signorina della contabilità lavorano nell'ufficio marketing, ma entrambi possono dare un enorme contributo in termini di immagine, comunicazione, servizio.
La funzione marketing potrebbe quindi essere collocata non in una casella di un ideale organigramma, bensì costituire una specie di anello, di cerchio che circonda l'intera azienda, un "filtro" gigantesco attraverso il quale transitano e si purificano tutti i fatti dell'impresa, in entrata ed in uscita. Se vale, come dovrebbe, l'equazione qualità totale = soddisfazione del cliente la questione riguarda tutti all'interno dell'azienda.
Forse aveva ragione David Packard, co-fondatore della Hewlett-Packard, che con un pizzico di ironia diceva "il marketing è troppo importante per lasciarlo in mano solo ai direttori marketing!"
TRUFFE FANTASIOSE
Allo stand in fiera, oppure in azienda, di solito preceduto da un fax allettante, ci fa visita un certo Mr. Smith, proprietario o direttore di una ditta centroafricana, sudamericana o est-europea. Bel personaggio, si presenta bene e dichiara grande interesse per le nostre macchine, sono proprio quelle che lui cercava, vuole importarle per distribuirle nel suo paese e piazza subito un grosso ordine con pagamento, naturalmente, a mezzo lettera di credito.
Dopo un paio di settimane Mr. Smith telefona per informare che la banca sta già aprendo la lettera di credito e vuole anche sapere se abbiamo sufficiente capacità produttiva per soddisfare le continue richieste che sta avendo dal mercato. Qualche giorno ancora e arriva un fax da una banca del suo paese (noi non la conosciamo, d’altra parte non possiamo conoscere tutte le banche estere; per un fax però basta una carta intestata, magari fabbricata con la fotocopiatrice) che conferma l’imminente apertura della lettera di credito.
Noi siamo tutti contenti e in mezzo a tanta gioia arriva una nuova telefonata di Mr. Smith che dice grosso modo così: “Ho l’opportunità di essere presente ad una fiera specializzata dove potrò vendere almeno il doppio o il triplo di quanto vi avevo indicato, purtroppo però non ho neppure una macchina da esporre nello stand e non posso aspettare quelle che ho in ordine; mandatemene urgentemente almeno un paio, che vi pagherò aggiungendole alla lettera di credito che è in corso di apertura. Non c’è altro modo per arrivare in tempo per la fiera, ma state tranquilli, la banca vi confermerà per fax che anche queste due macchine verranno incluse nella lettera di credito”. Il fax della “banca” arriva subito.
Noi siamo presi nell’ingranaggio, l’affare in gioco è molto grosso, Mr. Smith ci ha fatto una buona impressione e non vogliamo correre il rischio di rovinare tutto mostrando di non fidarci e … spediamo le due macchine.
Superfluo dire che non vedremo mai la lettera di credito, né Mr. Smith, mentre le due macchine perdute ci avranno insegnato qualcosa
Allo stand in fiera, oppure in azienda, di solito preceduto da un fax allettante, ci fa visita un certo Mr. Smith, proprietario o direttore di una ditta centroafricana, sudamericana o est-europea. Bel personaggio, si presenta bene e dichiara grande interesse per le nostre macchine, sono proprio quelle che lui cercava, vuole importarle per distribuirle nel suo paese e piazza subito un grosso ordine con pagamento, naturalmente, a mezzo lettera di credito.
Dopo un paio di settimane Mr. Smith telefona per informare che la banca sta già aprendo la lettera di credito e vuole anche sapere se abbiamo sufficiente capacità produttiva per soddisfare le continue richieste che sta avendo dal mercato. Qualche giorno ancora e arriva un fax da una banca del suo paese (noi non la conosciamo, d’altra parte non possiamo conoscere tutte le banche estere; per un fax però basta una carta intestata, magari fabbricata con la fotocopiatrice) che conferma l’imminente apertura della lettera di credito.
Noi siamo tutti contenti e in mezzo a tanta gioia arriva una nuova telefonata di Mr. Smith che dice grosso modo così: “Ho l’opportunità di essere presente ad una fiera specializzata dove potrò vendere almeno il doppio o il triplo di quanto vi avevo indicato, purtroppo però non ho neppure una macchina da esporre nello stand e non posso aspettare quelle che ho in ordine; mandatemene urgentemente almeno un paio, che vi pagherò aggiungendole alla lettera di credito che è in corso di apertura. Non c’è altro modo per arrivare in tempo per la fiera, ma state tranquilli, la banca vi confermerà per fax che anche queste due macchine verranno incluse nella lettera di credito”. Il fax della “banca” arriva subito.
Noi siamo presi nell’ingranaggio, l’affare in gioco è molto grosso, Mr. Smith ci ha fatto una buona impressione e non vogliamo correre il rischio di rovinare tutto mostrando di non fidarci e … spediamo le due macchine.
Superfluo dire che non vedremo mai la lettera di credito, né Mr. Smith, mentre le due macchine perdute ci avranno insegnato qualcosa
CONTINUIAMO AD ANDARE ALLE FIERE
“Basta, non partecipo più alle fiere”, mi dice di tanto in tanto qualche imprenditore. “Perchè?” gli chiedo, “perchè non si prendono più ordini come una volta, anzi, non se ne prendono proprio”. E’ vero, alle fiere, tranne poche eccezioni, si vende sempre di meno, ma considero un errore decidere di non partecipare più. Sicuramente in passato si tornava dalle fiere con un bel “pacco” di ordini, ma ciò era principalmente dovuto al fatto che le fiere erano l’unico o uno dei pochissimi momenti di incontro tra azienda e clienti e dunque entrambi approfittavano dell’occasione.
Adesso non è più così; comunicazioni e trasporti sono sempre più veloci, l’elettronica e l’informatica hanno accorciato tempi e distanze e fatto rimpicciolire il mondo, si può entrare in contatto con i clienti in moltissimi altri modi e quindi gli ordini si piazzano in qualsiasi altro momento, con maggiore attenzione, più frazionati, tarati secondo le reali necessità e così ci viene tolta la soddisfazione di avere fatto una “buona caccia” in fiera. Ma la fiera continua ad essere importante e a servire, solo che va intesa in modo diverso, con diversi obiettivi ed aspettative.
Il suo ruolo è sempre meno quello di “mercato” e sempre di più di “vetrina”, di “passerella”, ma soprattutto di fondamentale appuntamento professionale per incontrare, vedere, confrontare, in una parola “capire” come sta andando il nostro settore, che cosa sta facendo la concorrenza, quali sono le attese della clientela, a che punto è la tecnologia del comparto di nostro interesse.
In effetti le fiere costano, non solo per l’occupazione dello spazio (che indicativamente incide per il 25-30% della spesa totale di partecipazione), ma per tutto il resto, trasporti, spedizioni, soggiorno, relazioni, ecc.; eppure è opportuno continuare ad andarci, magari selezionando con rigorosa attenzione le fiere migliori e, se proprio decidiamo di non partecipare, cerchiamo almeno di andare a visitarle, altrimenti c’è proprio il rischio di venire “tagliati fuori” dal nostro ambiente e dal nostro mestiere, che sono poi il nostro mondo.
QUALITA' E MARKETING
La qualità come elemento di marketing? Senza dubbio, perchè un'azienda che si pone l'obiettivo della qualità significa che mette la propria attenzione sul cliente, che costituisce l'obiettivo principe dell'intera l'attività di marketing, non dimenticando naturalmente che alla soddisfazione del cliente deve accompagnarsi anche il profitto per l'impresa. altrimenti staremmo parlando di qualcosa che è fuori dall'ambito aziendale, anzi, del concetto stesso di impresa.
La qualità non è elencata tra le “leve” del marketing (Prodotto, Prezzo, Distribuzione, Comunicazione e Servizio) poiché, a ben guardare, possiamo trovarne un po' in ognuna di quelle “leve”. Forse per questo è divenuta di uso corrente l'espressione Qualità Totale, più compiutamente espressa nella equivalenza Qualità Totale = Soddisfazione del Cliente.
Troppo spesso il consumatore si scorda della qualità perchè è impegnato a ricercare il prezzo, ma quando questa (la qualità) gli torna sotto gli occhi in modo sgradevole, ecco che improvvisamente ne comprende tutta l'importanza.
Siamo tutti contenti di avere pagato poco la cravatta in "pura" seta, ma andiamo a protestare con il negoziante se, dopo due volte che l'abbiamo usata, questa si è ridotta ad uno spago. In quel certo locale la pizza costa 2 euro di meno ma, se a causa di qualche "ingrediente" non siamo riusciti a digerirla, ce ne guardiamo bene dal ritornare e spargiamo la voce riguardo alla pessima esperienza e si potrebbe continuare con moltissimi altri esempi.
Il fatto è che la qualità costituisce l'aspetto più importante di ciò che compriamo, sia esso un prodotto o un servizio. Nessuno si rivolgerebbe ad un avvocato che pratica parcelle basse, ma del quale si dice in giro che non sa fare il suo mestiere e che perde tutte le cause. Se la qualità viene a mancare ci sentiamo delusi, traditi, truffati. Attenzione alla qualità dunque, sia come consumatori, ma anche e soprattutto come produttori, perchè basta poco, anche solo un inconveniente, una mezza voce che circola e la clientela cambia subito direzione. L'infedeltà è una delle caratteristiche del cliente, non scordiamolo.
NON SOTTOVALUTARE IL BIGLIETTO DA VISITA
Il biglietto da visita, un banale cartoncino con il proprio nome, da lasciare quando si va a trovare un cliente o un fornitore o per accompagnare gli auguri di Natale. No! Il biglietto da visita è molto di più, può divenire uno strumento di marketing e di comunicazione, a condizione che sia un biglietto da visita come si deve. Come deve essere un biglietto da visita che si rispetti? Innanzitutto la misura, non deve essere né grande come una cartolina né piccolo come un francobollo; le misure standard possono essere 9x6 centimetri. Il carattere tipografico deve essere in sintonia con l’attività svolta, sarebbe incoerente usare il gotico se la nostra azienda opera in un settore avanzato dell’elettronica; vanno pure evitati fronzoli e ghirigori, mentre vanno bene il marchio aziendale e quello di eventuali certificazioni di qualità.
In alto o in basso vanno messi in bella evidenza: attività dell’azienda (produzione mobili, salumificio, impianti elettrici, ecc.), ragione sociale, indirizzo completo, telefono, e-mail, sito-web, codice fiscale e partita Iva. Il nome e cognome del titolare del biglietto vanno collocati in centro, accompagnati o meno, secondo i gusti e le abitudini, dai titoli accademici (Dott. Rag. Ing.) od onorifici (Cav. Comm.). E’ poi importante che appaia anche il ruolo che la persona ricopre in azienda (Presidente, Titolare, Direttore Commerciale, Capo Ufficio Acquisti, ecc.) perché l’interlocutore sappia chi ha di fronte o chi è passato a salutarlo. Per quanto riguarda i colori vanno bene le tonalità classiche, come bianco o avorio, lasciando le tinte vivaci o addirittura fluorescenti alle discoteche e simili.
Il biglietto va conservato bene, nel portafogli o portadocumenti, così da essere sempre integro e pulito; non è ammesso presentare un biglietto da visita unto e sgualcito. Se poi cambia l’indirizzo o il numero di telefono, è opportuno procurarsi dei nuovi biglietti o quantomeno apportare le correzioni necessarie con buona calligrafia e penna adeguata.
Poche regole dunque, ma da non sottovalutare, perché il biglietto da visita parla di noi ed è sicuramente meglio se parla bene.
Il biglietto da visita, un banale cartoncino con il proprio nome, da lasciare quando si va a trovare un cliente o un fornitore o per accompagnare gli auguri di Natale. No! Il biglietto da visita è molto di più, può divenire uno strumento di marketing e di comunicazione, a condizione che sia un biglietto da visita come si deve. Come deve essere un biglietto da visita che si rispetti? Innanzitutto la misura, non deve essere né grande come una cartolina né piccolo come un francobollo; le misure standard possono essere 9x6 centimetri. Il carattere tipografico deve essere in sintonia con l’attività svolta, sarebbe incoerente usare il gotico se la nostra azienda opera in un settore avanzato dell’elettronica; vanno pure evitati fronzoli e ghirigori, mentre vanno bene il marchio aziendale e quello di eventuali certificazioni di qualità.
In alto o in basso vanno messi in bella evidenza: attività dell’azienda (produzione mobili, salumificio, impianti elettrici, ecc.), ragione sociale, indirizzo completo, telefono, e-mail, sito-web, codice fiscale e partita Iva. Il nome e cognome del titolare del biglietto vanno collocati in centro, accompagnati o meno, secondo i gusti e le abitudini, dai titoli accademici (Dott. Rag. Ing.) od onorifici (Cav. Comm.). E’ poi importante che appaia anche il ruolo che la persona ricopre in azienda (Presidente, Titolare, Direttore Commerciale, Capo Ufficio Acquisti, ecc.) perché l’interlocutore sappia chi ha di fronte o chi è passato a salutarlo. Per quanto riguarda i colori vanno bene le tonalità classiche, come bianco o avorio, lasciando le tinte vivaci o addirittura fluorescenti alle discoteche e simili.
Il biglietto va conservato bene, nel portafogli o portadocumenti, così da essere sempre integro e pulito; non è ammesso presentare un biglietto da visita unto e sgualcito. Se poi cambia l’indirizzo o il numero di telefono, è opportuno procurarsi dei nuovi biglietti o quantomeno apportare le correzioni necessarie con buona calligrafia e penna adeguata.
Poche regole dunque, ma da non sottovalutare, perché il biglietto da visita parla di noi ed è sicuramente meglio se parla bene.
ATTENTI AL CLIENTE INSODDISFATTO!
Ogni tanto, in qualche negozio o ristorante, mi capita di leggere un cartello che riporta la vecchia e nota frase: “Se siete stati contenti ditelo agli altri, se non lo siete stati ditelo a noi”. Giusto, una vecchia affermazione per un concetto più che mai attuale, che costituisce l’obiettivo primario di molte aziende e dovrebbe costituirlo per tutte: La soddisfazione del cliente.
Riflettendo ci rendiamo però conto, come ha rilevato un noto sociologo, che il nocciolo della questione non è la soddisfazione del cliente bensì la sua fedeltà; è questa infatti che garantisce continuità all’azienda e ne costituisce quindi il vero patrimonio. In termini economici è molto meno costoso conservare un cliente esistente che acquisirne uno nuovo (stime attendibili valutano 5/6 volte di più). Nella realtà accade purtroppo che molte aziende che, in linea di principio, condividono questa tesi, stentano poi a metterla in pratica.
Di fatto, non è tanto la “soddisfazione” quanto “l’insoddisfazione” quella che dovrebbe attrarre maggiormente l’attenzione delle aziende; studiare cioè i clienti scontenti e quelli che decidono di andarsene. Questo aspetto, diciamo negativo, può costituire un’opportunità di sviluppo, o meglio di consolidamento poiché è provato che il cliente che non ha mai avuto problemi con l’azienda è meno fedele di quello che ha avuto qualche inconveniente, risolto però in maniera sollecita e soddisfacente. M.D.Johnson, già docente all’Università del Michigan, affermava esserci stretta correlazione tra qualità, soddisfazione del cliente e la sua fidelizzazione; possiamo quindi concludere che esiste un rapporto diretto tra orientamento al cliente e risultati aziendali.
Purtroppo, la gestione dei reclami è un tipico esempio di come le aziende non sappiano sempre porre la giusta attenzione al cliente; secondo un sondaggio (un po' datato ma verosimilmente ancora valido) a livello europeo, il 90% dei reclami sarebbe gestito in maniera inadeguata e insoddisfacente per i clienti.
Oramai le aziende più avanzate vanno oltre il concetto di “soddisfazione” e il loro obiettivo è “viziare” il cliente, cioè superare le sue aspettative espresse e soddisfare quelle latenti.
Ogni tanto, in qualche negozio o ristorante, mi capita di leggere un cartello che riporta la vecchia e nota frase: “Se siete stati contenti ditelo agli altri, se non lo siete stati ditelo a noi”. Giusto, una vecchia affermazione per un concetto più che mai attuale, che costituisce l’obiettivo primario di molte aziende e dovrebbe costituirlo per tutte: La soddisfazione del cliente.
Riflettendo ci rendiamo però conto, come ha rilevato un noto sociologo, che il nocciolo della questione non è la soddisfazione del cliente bensì la sua fedeltà; è questa infatti che garantisce continuità all’azienda e ne costituisce quindi il vero patrimonio. In termini economici è molto meno costoso conservare un cliente esistente che acquisirne uno nuovo (stime attendibili valutano 5/6 volte di più). Nella realtà accade purtroppo che molte aziende che, in linea di principio, condividono questa tesi, stentano poi a metterla in pratica.
Di fatto, non è tanto la “soddisfazione” quanto “l’insoddisfazione” quella che dovrebbe attrarre maggiormente l’attenzione delle aziende; studiare cioè i clienti scontenti e quelli che decidono di andarsene. Questo aspetto, diciamo negativo, può costituire un’opportunità di sviluppo, o meglio di consolidamento poiché è provato che il cliente che non ha mai avuto problemi con l’azienda è meno fedele di quello che ha avuto qualche inconveniente, risolto però in maniera sollecita e soddisfacente. M.D.Johnson, già docente all’Università del Michigan, affermava esserci stretta correlazione tra qualità, soddisfazione del cliente e la sua fidelizzazione; possiamo quindi concludere che esiste un rapporto diretto tra orientamento al cliente e risultati aziendali.
Purtroppo, la gestione dei reclami è un tipico esempio di come le aziende non sappiano sempre porre la giusta attenzione al cliente; secondo un sondaggio (un po' datato ma verosimilmente ancora valido) a livello europeo, il 90% dei reclami sarebbe gestito in maniera inadeguata e insoddisfacente per i clienti.
Oramai le aziende più avanzate vanno oltre il concetto di “soddisfazione” e il loro obiettivo è “viziare” il cliente, cioè superare le sue aspettative espresse e soddisfare quelle latenti.
QUEL PRODOTTO (NON) SI VENDE DA SOLO
“C’era uno stand in fiera dove avevano dei prodotti che si vendevano da soli; l’altro giorno, ho visto al supermercato un’esposizione di detersivi che si vendevano da soli”. Quante volte ci è capitato di sentire frasi di questo genere.
Ebbene, queste frasi sono sbagliate, esprimono concetti sbagliati in quanto quei prodotti, quei detersivi non si vendevano assolutamente da soli. Se effettivamente c’erano molti clienti che acquistavano con interesse ed in grande quantità quei prodotti, ciò derivava da una lunga serie di ragioni: il prodotto era buono, o era conosciuto (magari a seguito di una forte pubblicità), o aveva un prezzo conveniente, o era stato esposto in modo attraente, c’era stato comunque un precedente e lungo lavoro di marketing su vari fronti, per far si che quel prodotto attirasse il cliente al punto tale da farlo acquistare con l’entusiasmo di cui ho detto.
Quel “vendersi da solo” che appare ai nostri occhi non è altro che il risultato del lavoro che è stato fatto prima, lontano dai nostri occhi e che è costato tempo e denaro in termini di studio, di ricerca, di sperimentazioni sul prodotto, sulla confezione, sul prezzo, sulla concorrenza, sulle tecniche espositive ed altro. Pensiamo a quanto lavoro “nascosto” c’è dietro al nuovo gusto di un biscotto, alla forma gradevole di un flacone di shampoo, alla linea di un telefonico, alla accattivante esposizione di un qualsiasi prodotto in un ipermercato, ad un orologio di plastica colorata che ci piace tantissimo.
Poi vediamo moltissime persone persino accapigliarsi per comprare quei prodotti e siamo portati a pensare che si “vendono da soli”, ma abbiamo capito che non è così.
La prossima volta che, osservando una bella vetrina, verremo attratti da un prodotto esposto e ci sentiremo spinti ad entrare per comprarlo, fermiamoci un attimo e chiediamoci: mi interessa davvero quel prodotto o sono stato “stregato” dalla vetrina? Forse non riusciremo a risponderci facilmente.
“C’era uno stand in fiera dove avevano dei prodotti che si vendevano da soli; l’altro giorno, ho visto al supermercato un’esposizione di detersivi che si vendevano da soli”. Quante volte ci è capitato di sentire frasi di questo genere.
Ebbene, queste frasi sono sbagliate, esprimono concetti sbagliati in quanto quei prodotti, quei detersivi non si vendevano assolutamente da soli. Se effettivamente c’erano molti clienti che acquistavano con interesse ed in grande quantità quei prodotti, ciò derivava da una lunga serie di ragioni: il prodotto era buono, o era conosciuto (magari a seguito di una forte pubblicità), o aveva un prezzo conveniente, o era stato esposto in modo attraente, c’era stato comunque un precedente e lungo lavoro di marketing su vari fronti, per far si che quel prodotto attirasse il cliente al punto tale da farlo acquistare con l’entusiasmo di cui ho detto.
Quel “vendersi da solo” che appare ai nostri occhi non è altro che il risultato del lavoro che è stato fatto prima, lontano dai nostri occhi e che è costato tempo e denaro in termini di studio, di ricerca, di sperimentazioni sul prodotto, sulla confezione, sul prezzo, sulla concorrenza, sulle tecniche espositive ed altro. Pensiamo a quanto lavoro “nascosto” c’è dietro al nuovo gusto di un biscotto, alla forma gradevole di un flacone di shampoo, alla linea di un telefonico, alla accattivante esposizione di un qualsiasi prodotto in un ipermercato, ad un orologio di plastica colorata che ci piace tantissimo.
Poi vediamo moltissime persone persino accapigliarsi per comprare quei prodotti e siamo portati a pensare che si “vendono da soli”, ma abbiamo capito che non è così.
La prossima volta che, osservando una bella vetrina, verremo attratti da un prodotto esposto e ci sentiremo spinti ad entrare per comprarlo, fermiamoci un attimo e chiediamoci: mi interessa davvero quel prodotto o sono stato “stregato” dalla vetrina? Forse non riusciremo a risponderci facilmente.
L’IMPORTANZA DI COMUNICARE
Mi è più volte capitato e mi capita tutt’ora nello svolgimento della mia attività, di parlare con qualche imprenditore e sentirmi dire: “Ho un prodotto buono, ma stento a venderlo”.
La mia domanda è sempre la stessa: “Che cosa ha fatto, quali azioni ha attivato per venderlo ?” “Che cosa intende dire ?” è la risposta. “Intendo dire che vorrei sapere in che modo lei ha fatto sapere di avere questo prodotto, a che prezzo lo vende, vorrei vedere i suoi cataloghi, il suo sito-web,vorrei sapere a quali fiere lei partecipa e quanti rappresentanti o grossisti ha, vorrei in sostanza sapere in che modo lei ha informato i suoi clienti esistenti e potenziali, cioè il mercato, di questo suo prodotto e che riscontri ha ottenuto da questa, diciamo così, presentazione”.
“Perché ?” è la successiva domanda “non basta che il mio prodotto sia buono e che il prezzo sia conveniente rispetto ai miei concorrenti ?” “No, non basta se nessuno lo sa, anzi, comunicando in modo adeguato, persino spinto, il suo prodotto potrebbe anche essere un po’ meno buono (che non vuol dire di scarsa qualità) e magari anche un po’ più caro e lei lo venderebbe ugualmente, con un margine maggiore di ricavo”.
“Ma comunicare costa !” “Certamente! come costano i capannoni, le macchine, le materie prime, gli operai, come costano tutti gli investimenti che lei ha fatto e continua a fare.” Anche la comunicazione è un investimento perché prepara adeguatamente l’azione commerciale, rendendo così più fruttuoso il lavoro degli uomini di vendita. La comunicazione “parla” della nostra azienda, dei nostri prodotti, dice a chi non ci conosce chi siamo e cosa facciamo e riconferma, a chi già ci conosce, la sicurezza di avere fatto una buona scelta, di avere un fornitore affidabile.
La nostra credibilità, la nostra reputazione, la nostra capacità, in una parola la nostra “immagine” di azienda va prima conquistata e poi mantenuta. Questo fondamentale compito è affidato alla comunicazione.
Mi è più volte capitato e mi capita tutt’ora nello svolgimento della mia attività, di parlare con qualche imprenditore e sentirmi dire: “Ho un prodotto buono, ma stento a venderlo”.
La mia domanda è sempre la stessa: “Che cosa ha fatto, quali azioni ha attivato per venderlo ?” “Che cosa intende dire ?” è la risposta. “Intendo dire che vorrei sapere in che modo lei ha fatto sapere di avere questo prodotto, a che prezzo lo vende, vorrei vedere i suoi cataloghi, il suo sito-web,vorrei sapere a quali fiere lei partecipa e quanti rappresentanti o grossisti ha, vorrei in sostanza sapere in che modo lei ha informato i suoi clienti esistenti e potenziali, cioè il mercato, di questo suo prodotto e che riscontri ha ottenuto da questa, diciamo così, presentazione”.
“Perché ?” è la successiva domanda “non basta che il mio prodotto sia buono e che il prezzo sia conveniente rispetto ai miei concorrenti ?” “No, non basta se nessuno lo sa, anzi, comunicando in modo adeguato, persino spinto, il suo prodotto potrebbe anche essere un po’ meno buono (che non vuol dire di scarsa qualità) e magari anche un po’ più caro e lei lo venderebbe ugualmente, con un margine maggiore di ricavo”.
“Ma comunicare costa !” “Certamente! come costano i capannoni, le macchine, le materie prime, gli operai, come costano tutti gli investimenti che lei ha fatto e continua a fare.” Anche la comunicazione è un investimento perché prepara adeguatamente l’azione commerciale, rendendo così più fruttuoso il lavoro degli uomini di vendita. La comunicazione “parla” della nostra azienda, dei nostri prodotti, dice a chi non ci conosce chi siamo e cosa facciamo e riconferma, a chi già ci conosce, la sicurezza di avere fatto una buona scelta, di avere un fornitore affidabile.
La nostra credibilità, la nostra reputazione, la nostra capacità, in una parola la nostra “immagine” di azienda va prima conquistata e poi mantenuta. Questo fondamentale compito è affidato alla comunicazione.